Rassegna stampa

La vita di Enrico Mereu attraverso penne e telecamere

Nove anni fa Paolo Virzì tentò di girare una scena del film N sull’isola di Pianosa, convincendo il suo produttore a cogliere un rischio sostanzialmente superfluo (nel film nessuno se ne sarebbe accorto) per amor dell’avventura.

 

Io andai sull’isola per assistere all’impresa, ma il tentativo fu frustrato da tre tempeste consecutive, Virzì si ammalò e si riuscì tutti a lasciare l’isola al pelo, con l’ultimo traghetto prima di una sospensione di tre giorni del servizio per il maltempo. 

Non fu girato nemmeno un metro di pellicola. Perciò, quando ho saputo che un altro produttore ha accettato una sfida del genere - anzi, ben più imponente, poiché si tratta di un film intero girato sull’isola dell’Asinara - ho avuto due moti d’animo contrastanti: uno, devo andarci, perché voglio vedere con i miei occhi questa impresa; due, non devo andarci, perché se qualcosa va storto anche li, si sparge la voce che porto scarogna. Ha vinto il coraggio sulla prudenza, è così eccomi qui sul gommone che da Stintino mi porta all’approdo di Fornelli, dove per centoventi anni sono stati scaricati i detenuti spediti in uno dei carceri più famosi d’Europa. L’organizzatore di produzione mi stava aspettando. Poiché la troupe ha fatto la notte, la convocazione per le riprese è prevista per le quattro di pomeriggio: dunque ho diverse ore a disposizione per visitare l’isola in compagnia sua e di Enrico Mereu, scultore, ex guardia carceraria e memoria storica dell’Asinara. 

Con la sua Land Rover ci accompagna in un lungo e spettacolare giro, raccontando storie pazzesche, ottimi spunti per una decina di romanzi. Tendo d’occhio il cielo: è chiuso, grigio scuro, e non mi sento per nulla tranquillo, perché anche solo un temporale potrebbe compromettere definitivamente la mia reputazione. Ora, la storia dell’Asinara non può essere riassunta in poche righe, ma presenta una costante inaudita che ne fa un caso unico tra le isole del Mediterraneo: non è mai stata realmente abitata. A fronte di un’estensione ragguardevole (oltre 51 chilometri quadrati, cioè 5 più di Ischia) conta al momento un residente - il qui presente Enrico Mereu, per l’appunto. Per secoli sfruttata come mera guarnigione navale o militare, è arrivata a contarne al massimo 300, tra il Settecento e l’Ottocento, prima di essere svuotata a forza nel 1886 e destinata all’uso che l’ha resa celebre - di lazzaretto, carcere e campo di concentramento per prigionieri di guerra. Un paradiso, cioè, che l’uomo ha sempre utilizzato come inferno. Le costruzioni, quasi tutte abbandonate, sono per la maggior parte ex strutture carcerarie o militari o amministrative, la presenza umana, ora che le traversate dalla Sardegna non sono più viaggi di sola andata, è costituita da turisti, guardie forestali e dipendenti del Parco nazionale che gestisce l’isola dopo la chiusura del carcere - un umanità ancor più temporanea o stagionale di quando c’era il carcere. Il risultato è che la natura ha lampantemente la meglio sull’uomo, e le bestie sono le vere padrone di questa terra: gli asini comuni e quelli albini, i cavalli, le capre e i cinghiali se ne vanno in giro per strade e carrarecce senza alcun timore dell’uomo, che, privato delle sue ambizioni civilizzatrici, diviene succube e irrilevante.
Ciò è senz’altro un bene per le finalità del Parco, ma non sono sicuro che si tratti di un atteggiamento esemplare: con un intento questa volta virtuoso, esso non fa che confermare la rinuncia sistematica al ruolo che l’uomo ha ricoperto in ogni angolo della terra, e cioè insediarvisi e trasformarlo secondo le proprie esigenze sociali - attività che rendono difficile il mantenimento degli equilibri naturali, ma che hanno permesso alla specie umana di sopravvivere e di evolversi nei millenni. Questo abdicare a favore della natura rende si l’Asinara uno dei posti più meravigliosi che abbia visto in vita mia, ma somiglia a un cupo combinato di ottusità, prima, e d’impotenza adesso. Insomma, l’uomo deve rischiare, maledizione, deve mettersi in gioco: altrimenti si sarebbe già estinto da un pezzo.

Questo almeno penso, mentre mi godo il privilegio di questa visita spettacolosa. Uno che ha rischiato è proprio Enrico Mereu, che dopo trent’anni di lavoro come guardia carceraria ha deciso di rimanere a vivere all’Asinara - e, come ho detto, è l’unico. Poichè è uno modesto, devo pregarlo di portarmi a vedere le sue opere, e quando le vedo, forme strappate al legno e al sasso raffiguranti uomini e animali, percepisco una rabbia immensa, quella del vero artista che riscatta, da solo, la vergogna della sua razza. Alla fine dell’escursione ci offre un pranzo nella sua casetta, tanto frugale quanto squisito, a base di formaggio, salumi e cannonau. Il tempo tiene, i nuvoloni passano alti, neri e gravidi di pioggia, senza colpire. Forse stavolta la faccio franca.

Gli altri che hanno rischiato, qui, sono quelli del film. Arrivo nel punto in cui sono previste le riprese quando si è appena riunita la troupe, e trovo una comunità rilassata e tranquilla, alla faccia di tutti gli inconvenienti che ha dovuto affrontare: mancanza d’acqua o di elettricità, telefonini che non prendono, difficile convivenza con zecche, serpi, cinghiali e un luglio atmosfericamente molto poco benevolo. Il primo che rischia è il regista, Gianfranco Cabiddu, che mi viene incontro abbronzato e sorridente nella sua somiglianza con Dustin Hoffman. Il film, che si intitola La stoffa dei sogni, affonda le proprie radici nelle sue remote esperienze di fonico con Eduardo De Filippo, quando il Maestro, poco prima di morire, nel 1984, si dedicò all’assurda meravigliosa impresa di tradurre La Tempesta di Shakespeare in napoletano antico. Una raffinata combinazione del testo shakespeariano con L’arte della commedia dello stesso Eduardo; e partendo dal naufragio su un’isola di una nave che trasporta una compagnia di attori e un gruppo di mafiosi destinati al carcere, sviluppa il tema tipicamente eduardiano della finzione teatrale che si sostituisce alla realtà codificata, e della sovversione sociale insita nella pratica dell’arte popolare. Tecnicamente, non c’era nessun bisogno di girarlo sul serio su un’isola, e men che meno all’Asinara, dove nessuno si era mai azzardato a girare un film — e una ragione ci sarà: ma Cabiddu, sorridendo, sostiene che invece poteva essere girato soltanto qui, perché questo era il suo sogno, e che non ha nemmeno preso in considerazione l’ipotesi di farlo altrove. Questione di energia, dice — lui, cagliaritano, etnomusicologo, tecnico del suono, documentarista e regista addentro ai misteri della sua terra —, di forza atavica che solo l’Asinara è capace di sprigionare. Per darmene dimostrazione mi dice una cosa molto bella: dopo la prima settimana di ambientamento, ha notato che i membri della comunità metropolitana che lui ha tanto tenacemente trascinato qui, cioè i macchinisti, gli attori, i truccatori eccetera, hanno cominciato a sognare regolarmente ogni notte, e a raccontarsi i sogni l’uno con l’altro la mattina dopo. E poi, aggiunge, quale altro luogo più dell’Asinara può dirsi appropriato per un mago come Prospero e per un Calibano «non onorato con forma umana?» (Shakespeare, La Tempesta).

Ma quelli che hanno rischiato davvero più di tutti sono i produttori, una coppia di ragazzi che incontro sotto l’ombrellone di un baretto molto frequentato da asini e cinghiali. Arturo Paglia e Isabella Cocuzza, cioè la Paco Cinematografica, casa di produzione che negli ultimi anni è stata investita da una pioggia di riconoscimenti e di successi: per La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, ad esempio, o per Basilicata coast to coast e Una piccola impresa meridionale. Napoletano lui, siracusana lei, si mimetizzano nella troupe: tanto per rimanere in tema col film, potrebbero essere scambiati per truccatori, costumisti o anche attori, ma mai verrebbe di dire che sono i produttori. Hanno quattro figlie, una delle quali recita nel film, e sono rilassati, tranquilli, distanti dalla prosopopea che si accompagna per solito al loro ruolo. «Voi siete due pazzi, lo sapete?», dico — perché ho letto la sceneggiatura e il film avrebbe potuto davvero esser girato dovunque. La risposta è chiara: «Sì, lo sappiamo».

La ragione per cui si sono presi un rischio che nessuno si era mai preso prima è uguale a quella dichiarata dal regista: perché è un sogno, perché la forza atavica, perché Calibano… Cazzo, penso: nel pieno della crisi del cinema, dell’Italia, dell’Occidente, e con una tacca scarsa di telefonino a disposizione, questi due stanno portando a casa un piccolo Fitzcarraldo italiano perché il regista l’ha sognato così. O si è verificata una repentina mutazione della specie Productor erectus o Gianfranco Cabiddu è un uomo fortunato almeno quanto è tenace. E non si tratta nemmeno di un filmetto: la troupe è di prima scelta e i protagonisti, per dire, sono Sergio Rubini ed Ennio Fantastichini: eccoli che scherzano con la troupe, sorridenti e carichi e giovani come quando facevano Orphans , venticinque anni fa, in tutti i teatri d’Italia insieme a Sergio Fantoni. Al tramonto i due della Paco mi portano via. Si continuerà a girare fino a mezzanotte (tutti interni, che potevano esser girati benissimo alla De Paolis), ma la loro figliola ha finito e viene riportata a Stintino dalle sue sorelle. È l’unica di tutta la troupe a godere di questo privilegio, perché ha nove anni: tutti gli altri, dall’ultimo degli attrezzisti ai suddetti Rubini e Fantastichini, resteranno sull’isola, sistemati nelle casematte come dei veri naufraghi. Mentre la macchina fila sulla strada di cemento verso l’approdo di Fornelli, due mufloni la scortano correndole a fianco nella prateria, maestosi, mitici (non ne avevo mai visto uno in vita mia), simili a divinità zoomorfe che sorvegliano gli umani, pronti a dargli addosso di capoccia nel caso si permettessero di violare le regole della loro casa. Si fermano in cima a un dosso e ci guardano salire sul gommone — inferiori, fragili e quasi intimoriti dalla sovrumana bellezza di un crepuscolo che mozza il respiro. Il cielo s’è calmato nel frattempo, le nuvole purpuree si aprono in squarci color cobalto punteggiati di stelle: niente calamità naturali e nemmeno una goccia di pioggia in tutto il giorno. Virzì, ora ne abbiamo la prova: a Pianosa non è stata colpa mia.

Sandro Veronesi - Corriere - 11 agosto 2014